mercoledì 15 febbraio 2012

La lampadina rossa

Osservo dal basso il palloncino che oggi mi hanno regalato a forma di fiore che sorride, gli ricambio il sorriso e mi sento di avere otto anni. E’ una serata leggera, l’atmosfera si è riempita di pensieri luminosi e creativi. Sarà forse stata la visita di tutta la famiglia al completo, del calore che ho sentito intorno, ma anche dell’aria nuova che stasera ho respirato. Ho sentito stasera finalmente un’aria che preannuncia la tregua, che precede la fine di un percorso.
Quel tipo d’aria è esattamente quella che si percepisce quando si sta in viaggio, magari in un posto molto lontano ed esotico, e ti avvisa che hai superato la metà del tempo del viaggio, hai fatto il famoso giro di boa.  Potessi trasformarla in un oggetto sarebbe una lampadina rossa, che illuminandosi e  iniziando a lampeggiare ti dice: “Attenzione, il viaggio è di due settimane e già una è passata”. E’ una sensazione che ti avvolge interamente e visceralmente, accompagnata ad un misto tra già nostalgia del luogo che si sta visitando ed entusiasmo a procedere, completare l’esplorazione. Io non adoro particolarmente quella sensazione, spesso la fuggo, preferisco piuttosto procrastinare la partenza o non programmarla affatto per evitare che si presenti, ma è impossibile: fa parte del pacchetto e puntualmente ogni viaggio si ripresenta. Ci sono persone invece che adorano quella sensazione, fanno parte della categoria degli “organizzatori”, pragmatici, amanti appassionati del controllo. Quella sensazione per loro indica che il viaggio sta procedendo, che è tutto sotto controllo, che presto si potrà tornare a casa, alla vita normale e ricominciare a programmare e costruire la propria vita. Ho molta stima di queste persone, e non dico che io non sia così anche in parte, forse anche per motivi genetici e ambientali(grazieaddio sennò vivrei solo di energia e mangerei fiori), ma se si potesse decidere veramente, non tornerei mai da un viaggio.
Eccomi così nella stanza 711 del settimo piano d’ematologia, del vecchio e possente Regina Elena, con la mente invasa di partenze, ritorni, e immagini di posti lontani e vedo anche in questo luogo che poco ha dell’esotico e che per arrivarci non ho dovuto prendere nessun volo intercontinentale, quella lampadina rossa accendersi e iniziare a lampeggiare.
Forse aveva ragione la mia amica scrittrice, quando mi diceva con tono da esperta viaggiatrice: “Vedi cara Fra, i veri viaggi dell’anima si fanno tra quattro mura”.
Oramai è una settimana che sono qui, e queste quattro mura sono diventate care e appassionate amiche, confidenti. Non mi stupirei se iniziassero anche loro a confidarsi con me un giorno, ma forse è solo una mia paranoia da strizzacervelli che non sono altro.
E’ poco una settimana, e soltanto un'altra ne dovrà passare prima della mia uscita, ma è come se adesso fermandomi sentissi tutto il tempo del viaggio insieme e in lontananza mi pare di intravedere l’arrivo. E’ ancora una sensazione leggera in realtà, impercettibile, fa parte di quelle sensazioni che sono il risultato dell’invisibile scorrere dei giorni, ma che manifestandosi rendono quei giorni visibili.
E poi oramai mi sono ambientata nel galeone, mi sento a casa.
Mi sono sempre sentita che nessun luogo e tutti i luoghi mi appartenessero, e perciò anche qui ho attivato la modalità “colonizzazione degli spazi”.
Ritengo che sia fondamentale personalizzare il luogo dove si abita, anche se per pochi giorni, è necessario che l’anima si espanda anche materialmente, ed esploda come a  materializzarsi dello spazio.
Ieri mi è venuto a trovare un mio amico che sul cellulare ho memorizzato con “poeta”,  nel vero senso della parola perché compone brani in rima baciata in inglese,  ed oltre questo è una persona che sembra provenire da un'altra dimensione. Quando sto con lui mi sento tornare indietro di secoli, e anche i miei pensieri cambiano, e come per magia è come se iniziassi a sentire in sottofondo musica classica. E’ una delle persone più anacronistiche e brillanti che conosco, si è laureato in fisica a vent’anni, è un brillante pianista, scrive romanzi e riesce a parlare per ore di argomenti che non appartengono a quest’epoca; ieri, per esempio, ha intrattenuto un discorso sulla differenza di pensieri che potrebbero avere Bach e Mozart ogni mattina al loro risveglio. Lui dice sempre di me che se fossi nata cinque secoli fa avrei sicuramente fondato una religione pagana o avrei fatto la fine di Giovanna D’Arco, forse non ha tutti i torti.
Arriva nella mia stanza trasalito e molto stanco, il viaggio per arrivare qui non è breve se non si ha una macchina e si vive al nord della città, è più di un’ora con i mezzi romani, e poggia sulla mia scrivania, che oramai sembra quella di un ufficio con tanto di abatjour, furtivamente introdotta e pile di libri, due piccoli volumi pieni di aforismi indiani di due guru sconosciuti indiani. Qui ci vorrebbe una parentesi sui guru indiani: da quello che mi sembra di aver capito, se sei indiano, sei un guru. Oramai la parola “guru”, è stata depredata del suo significato originale e sembra essere un appellativo che molti così presunti si affibbiano nella speranza di irretire spaesati e “ingenuotti” occidentali in cerca dell’illuminazione. I veri guru, sono quelli che non dicono di esserlo, ma questo è un altro discorso. Eccoci così di fronte a pagine e pagine di aforismi degli sconosciutissimi e presunti guru e con tanti fogli da riempire. Io adoro gli aforismi, forse perché sono una fan dell’essenzialità, e del simbolo. Ridurre tutta la realtà ad una sola parola, spogliarla della sua "prolissità": è un sogno che vivo continuamente. Dopo circa un’ora di attento lavoro di selezione, ascoltando musica rigorosamente classica o vedica,  abbiamo tappezzato la camera con aforismi e frasi di ogni genere, se ci penso è come aver dato voce a quelle pareti osservatrici.
A tempo di Mozart, la camera si è trasformata, ha assunto anche lei una sua identità, gli abbiamo dato la possibilità di esprimersi, anche se in maniera un po’ criptica ma efficace.
Lo scopo? Ovviamente risvegliare le coscienze.
Lascio immaginare le facce di medici e infermieri che ogni volta entrando nella mia stanza si soffermano ad osservare curiosi, e distratti queste frasi che popolano la 711.
Bene, questo mi rende felice. Mi rende felice lo stupore, la sorpresa, la curiosità, l’incanto, la luce negli occhi di chi per un istante si chiede se possa essere possibile credere che “Il reale non teme il tempo”, oppure “L’universo è il tuo maestro”; credo che sia così perché è la stessa luce che sento nei miei occhi.
Mi addormento perciò anche stasera, serena, galleggiando tra aforismi e palloncini colorati e l’ultima frase che mi viene in mente è “Non è  il mondo che deve migliorare, ma il tuo mondo di guardarlo”.
Forse sto avendo un’overdose di aforismi.
Ma come dire: “Tutto accade come desideri, purché lo desideri”.


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