Osservo dal basso il palloncino che oggi mi hanno regalato a
forma di fiore che sorride, gli ricambio il sorriso e mi sento di avere otto
anni. E’ una serata leggera, l’atmosfera si è riempita di pensieri luminosi e
creativi. Sarà forse stata la visita di tutta la famiglia al completo, del
calore che ho sentito intorno, ma anche dell’aria nuova che stasera ho
respirato. Ho sentito stasera finalmente un’aria che preannuncia la tregua, che
precede la fine di un percorso.
Quel tipo d’aria è esattamente quella che si percepisce
quando si sta in viaggio, magari in un posto molto lontano ed esotico, e ti
avvisa che hai superato la metà del tempo del viaggio, hai fatto il famoso giro
di boa. Potessi trasformarla in un
oggetto sarebbe una lampadina rossa, che illuminandosi e iniziando a lampeggiare ti dice:
“Attenzione, il viaggio è di due settimane e già una è passata”. E’ una
sensazione che ti avvolge interamente e visceralmente, accompagnata ad un misto
tra già nostalgia del luogo che si sta visitando ed entusiasmo a procedere,
completare l’esplorazione. Io non adoro particolarmente quella sensazione,
spesso la fuggo, preferisco piuttosto procrastinare la partenza o non
programmarla affatto per evitare che si presenti, ma è impossibile: fa parte
del pacchetto e puntualmente ogni viaggio si ripresenta. Ci sono persone invece
che adorano quella sensazione, fanno parte della categoria degli
“organizzatori”, pragmatici, amanti appassionati del controllo. Quella
sensazione per loro indica che il viaggio sta procedendo, che è tutto sotto
controllo, che presto si potrà tornare a casa, alla vita normale e ricominciare
a programmare e costruire la propria vita. Ho molta stima di queste persone, e
non dico che io non sia così anche in parte, forse anche per motivi genetici e
ambientali(grazieaddio sennò vivrei solo
di energia e mangerei fiori), ma se si potesse decidere veramente, non tornerei
mai da un viaggio.
Eccomi così nella stanza 711 del settimo piano d’ematologia,
del vecchio e possente Regina Elena, con la mente invasa di partenze, ritorni,
e immagini di posti lontani e vedo anche in questo luogo che poco ha
dell’esotico e che per arrivarci non ho dovuto prendere nessun volo
intercontinentale, quella lampadina rossa accendersi e iniziare a lampeggiare.
Forse aveva ragione la mia amica scrittrice, quando mi
diceva con tono da esperta viaggiatrice: “Vedi cara Fra, i veri viaggi
dell’anima si fanno tra quattro mura”.
Oramai è una settimana che sono qui, e queste quattro mura
sono diventate care e appassionate amiche, confidenti. Non mi stupirei se
iniziassero anche loro a confidarsi con me un giorno, ma forse è solo una mia
paranoia da strizzacervelli che non sono altro.
E’ poco una settimana, e soltanto un'altra ne dovrà passare
prima della mia uscita, ma è come se adesso fermandomi sentissi tutto il tempo
del viaggio insieme e in lontananza mi pare di intravedere l’arrivo. E’ ancora
una sensazione leggera in realtà, impercettibile, fa parte di quelle sensazioni
che sono il risultato dell’invisibile scorrere dei giorni, ma che
manifestandosi rendono quei giorni visibili.
E poi oramai mi sono ambientata nel galeone, mi sento a
casa.
Mi sono sempre sentita che nessun luogo e tutti i luoghi mi
appartenessero, e perciò anche qui ho attivato la modalità “colonizzazione
degli spazi”.
Ritengo che sia fondamentale personalizzare il luogo dove si
abita, anche se per pochi giorni, è necessario che l’anima si espanda anche
materialmente, ed esploda come a
materializzarsi dello spazio.
Ieri mi è venuto a trovare un mio amico che sul cellulare ho
memorizzato con “poeta”, nel vero
senso della parola perché compone brani in rima baciata in inglese, ed oltre questo è una persona che
sembra provenire da un'altra dimensione. Quando sto con lui mi sento tornare
indietro di secoli, e anche i miei pensieri cambiano, e come per magia è come
se iniziassi a sentire in sottofondo musica classica. E’ una delle persone più
anacronistiche e brillanti che conosco, si è laureato in fisica a vent’anni, è
un brillante pianista, scrive romanzi e riesce a parlare per ore di argomenti
che non appartengono a quest’epoca; ieri, per esempio, ha intrattenuto un
discorso sulla differenza di pensieri che potrebbero avere Bach e Mozart ogni
mattina al loro risveglio. Lui dice sempre di me che se fossi nata cinque
secoli fa avrei sicuramente fondato una religione pagana o avrei fatto la fine
di Giovanna D’Arco, forse non ha tutti i torti.
Arriva nella mia stanza trasalito e molto stanco, il viaggio
per arrivare qui non è breve se non si ha una macchina e si vive al nord della
città, è più di un’ora con i mezzi romani, e poggia sulla mia scrivania, che
oramai sembra quella di un ufficio con tanto di abatjour, furtivamente introdotta e pile di libri, due
piccoli volumi pieni di aforismi indiani di due guru sconosciuti indiani. Qui
ci vorrebbe una parentesi sui guru indiani: da quello che mi sembra di aver
capito, se sei indiano, sei un guru. Oramai la parola “guru”, è stata depredata
del suo significato originale e sembra essere un appellativo che molti così
presunti si affibbiano nella speranza di irretire spaesati e “ingenuotti”
occidentali in cerca dell’illuminazione. I veri guru, sono quelli che non
dicono di esserlo, ma questo è un altro discorso. Eccoci così di fronte a
pagine e pagine di aforismi degli sconosciutissimi e presunti guru e con tanti
fogli da riempire. Io adoro gli aforismi, forse perché sono una fan dell’essenzialità,
e del simbolo. Ridurre tutta la realtà ad una sola parola, spogliarla della sua
"prolissità": è un sogno che vivo continuamente. Dopo circa un’ora di attento
lavoro di selezione, ascoltando musica rigorosamente classica o vedica, abbiamo tappezzato la camera con
aforismi e frasi di ogni genere, se ci penso è come aver dato voce a quelle
pareti osservatrici.
A tempo di Mozart, la camera si è trasformata, ha assunto
anche lei una sua identità, gli abbiamo dato la possibilità di esprimersi,
anche se in maniera un po’ criptica ma efficace.
Lo scopo? Ovviamente risvegliare le coscienze.
Lascio immaginare le facce di medici e infermieri che ogni
volta entrando nella mia stanza si soffermano ad osservare curiosi, e distratti
queste frasi che popolano la 711.
Bene, questo mi rende felice. Mi rende felice lo stupore, la
sorpresa, la curiosità, l’incanto, la luce negli occhi di chi per un istante si
chiede se possa essere possibile credere che “Il reale non teme il tempo”, oppure
“L’universo è il tuo maestro”; credo che sia così perché è la stessa luce che
sento nei miei occhi.
Mi addormento perciò anche stasera, serena, galleggiando tra
aforismi e palloncini colorati e l’ultima frase che mi viene in mente è “Non
è il mondo che deve migliorare, ma
il tuo mondo di guardarlo”.
Forse sto avendo un’overdose di aforismi.
Ma come dire: “Tutto accade come desideri, purché lo
desideri”.